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Studentati nelle ex caserme, over 60 in aula, ponti con le aziende: la sfida (comune) delle sei rettrici che vogliono cambiare Milano


Le iniziative degli atenei milanesi per riscrivere il rapporto tra università e cittadinanza raccontate dalle donne ai vertici

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C’è chi sceglie di costruire uno studentato in un’ex caserma, chi apre corsi universitari per gli over 60, e con le loro iscrizioni finanzia le borse di studio per i giovani. E chi, fuori città, manda gli studenti ad affiancare le piccole imprese del territorio, spesso incapaci di innovarsi da sole e a rischio chiusura. Sono solo alcuni esempi che raccontano una trasformazione in corso: a Milano, le università stanno cambiando la città. Dietro aule, campus, lauree e regolamenti, c’è infatti una narrazione nuova che sta emergendo. Un’alleanza silenziosa con il territorio guidata dalle sei rettrici – sei donne, sei visioni, sei modi di abitare il potere – che sta riscrivendo il rapporto tra sapere e cittadinanza, ma anche il modello di città. Sempre di più, i progetti in cui stanno investendo gli atenei non restano chiusi nei corridoi accademici, ma ridisegnano i quartieri, aprono servizi e parlano a tutte le fasce età, scardinando la logica della prestazione per fare spazio a quella della relazione.

«Riqualificare una caserma per farne un’università è un gesto politico»

Come racconta la rettrice dell’Università Bicocca, Giovanna Iannantuoni, nonché presidente della Crui (Conferenza dei rettori), dopo il Covid e l’arrivo del Pnrr «abbiamo imparato a collaborare, invece di competere. E questo ci permette di affrontare con più forza le urgenze dell’università e della città in cui gli atenei sono inseriti». Perché, sottolinea, il mondo ora è in ginocchio «tra dazi, guerre, crisi ambientali e rivoluzioni tecnologiche» e le «università devono unirsi tra loro e con le istituzioni, il terzo settore e le imprese per rispondere alle necessità della cittadinanza». Un’alleanza che è anche una risposta a un rischio sempre più evidente: quello dell’isolamento, dell’individualismo. Lo sottolinea il progetto dell’Università Cattolica, che sta trasformando l’ex Caserma Garibaldi in uno dei campus universitari più grandi d’Europa. «In un momento storico in cui molti investimenti vanno verso il riarmo», commenta la rettrice Elena Beccalli all’evento di Milano Pensare le città con le rettrici, «noi abbiamo scelto di destinare risorse alla cultura, alla formazione, alla comunità studentesca ristrutturando un’ex caserma».

La città che si sposta con gli studenti

Ogni ateneo sta riscrivendo un pezzo del volto della città. La Statale, come racconta la rettrice Marina Brambilla, si prepara a un trasloco significativo verso Mind, l’area dell’ex Expo. Qui si trasferiranno molti dipartimenti scientifici, coinvolgendo circa 3mila persone tra studenti, ricercatori e docenti. «Questo spostamento verso Milano Ovest è un’opportunità di rigenerazione urbana per un’area della città che forse, negli ultimi anni, è rimasta un po’ più ai margini delle grandi trasformazioni quotidiane», spiega Brambilla. E non è l’unica a pensarla così. Anche il Politecnico di Milano guarda a ovest, nella zona di Bovisa, dove è in corso la costruzione di un campus: «È un’area storicamente industriale, fatta di gasometri e vecchie fabbriche. L’idea è intervenire non più dando vita a fabbriche che già inquinavano, e assicuro che il livello di inquinamento in quella zona è stato davvero grave, ma un nuovo ecosistema educativo. La bonifica dell’area è stata un’operazione complessa e costosa: parliamo di circa 40 milioni di euro sostenuti dal Politecnico, perché il Comune non aveva le risorse necessarie». E, aggiunge la rettrice Donatella Sciuto, il progetto punta a riqualificare senza cancellare la memoria: «Gli edifici storici e i gasometri saranno preservati e valorizzati, diventando simboli della nuova Milano. Al centro, la vita studentesca, con due residenze universitarie da 500 posti, spazi culturali e il trasferimento delle Scuole Civiche, che porteranno teatro, auditorium e nuovi spazi per il quartiere».

L’idea della Iulm: far studiare gli over 60 per aiutare i giovani

Anche la Iulm ha scelto di stare dove nessuno se lo aspetta: ai margini o, come si usa dire le linguaggio comune, «oltre la circonvallazione». Un’area che spesso sfugge al radar della vita culturale milanese, ma che per l’università diretta da Valentina Garavaglia è diventata un’occasione. «Siamo in una zona che rischia di essere periferica. Ma proprio per questo vogliamo portare qui cultura, musica, teatro», racconta la rettrice. «Vogliamo essere un presidio nel quartiere, un invito a scoprire la bellezza anche dove non ci si aspetta di trovarla». È così che l’università si apre, non solo agli studenti, ma a tutta la città. E in particolare a chi pensava di aver chiuso con lo studio da tempo. «Abbiamo scoperto che i corsi aperti alla cittadinanza sono seguitissimi da persone over 60». Da qui l’idea: «Perché non creare un circuito virtuoso? La nostra proposta è che chi studia, anche dopo la pensione, contribuisca a finanziare una borsa di studio per un giovane che non può permettersi l’università. Così, io studio, e grazie al mio impegno, offro la possibilità a un ragazzo o a una ragazza di iniziare il proprio percorso universitario». Il progetto mira a costruire un legame tra generazioni. «Immaginate una Milano in cui studiare non significa solo imparare, ma anche restituire. Dove chi ha già avuto tanto nella vita può investire in chi deve ancora costruirsi il futuro», conclude Garavaglia.

Il problema della casa a Milano

«La casa è il vero nodo della vita studentesca a Milano», puntualizza la rettrice del Politecnico. «Il mercato privato spesso sfrutta gli studenti, tra affitti in nero, caparre irregolari e contratti non registrati. Ma credo anche che servano residenze diverse da quelle attuali pensate con il vecchio modello ministeriale: non più semplici “alberghi” con cambio lenzuola e palestra dentro, ma luoghi vivi, connessi ai quartieri, dove possa nascere una vera comunità». Il problema, riconosce Sciuto, non finisce con la laurea. Molti ragazzi restano a Milano per lavorare, ma non riescono a viverci dignitosamente. «Secondo le nostre stime, con uno stipendio da operaio oggi si possono permettere appena 19 metri quadri, un impiegato arriva a 25. E anche fuori città, nelle aree ben collegate dell’hinterland, è difficile superare i 50 metri quadri». I dati dell’Osservatorio del Politecnico parlano chiaro: tra il 2015 e il 2023, i prezzi degli immobili sono cresciuti del 58%, gli affitti del 45%, mentre i salari reali, sono aumentati solo del 9-10%, vanificati poi dall’inflazione. E così il divario tra redditi e costi dell’abitare si allarga sempre più.

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Fuori Milano: così le università possono (anche) salvare posti di lavoro

Ma quello della casa non è l’unico ostacolo che i giovani incontrano nel passaggio dallo studio al lavoro. Fuori dal centro di Milano, il problema si capovolge: qui ci sono aziende che rischiano di chiudere per mancanza di ricambio generazionale. «Ci sono centinaia di piccole imprese che hanno chiuso e rischiano di chiudere fuori dai grandi centri», spiega la rettrice Anna Gervasoni della Liuc a Castellanza, in provincia di Varese. Questo ateneo è posizionato fuori da Milano ma in una posizione strategica, a pochi chilometri dall’aeroporto di Malpensa e nel mezzo del corridoio industriale tra Milano e Varese. Fondata da Confindustria nel 1991, ha una forte vocazione imprenditoriale. E la sua missione è esplicita: creare un ponte tra la formazione accademica e le esigenze del tessuto produttivo, in particolare quello delle piccole e medie imprese che rappresentano l’ossatura economica del Paese. «Per questo abbiamo dato vita a Restart: un progetto dove mettiamo in contatto imprenditori che hanno bisogno di innovarsi con studenti pronti a portare idee, digitalizzazione, nuove energie», racconta la rettrice. «Nel nostro territorio abbiamo un grande problema di perdita di posti di lavoro. Molte aziende piccole chiudono e spesso perché i manager non sanno innovarsi. Noi atenei, in questo senso, possiamo aiutare anche a salvare posti di lavoro. L’università deve stare nei problemi veri, non solo nei paper».



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