Giorgia Meloni ha saputo «vendersi» bene la cifra di dieci miliardi di investimenti da parte di grandi aziende italiane negli Stati Uniti, per contribuire al clima amichevole dell’incontro con Donald Trump alla Casa Bianca. Ma chi ha dimestichezza con i numeri sa che questi sono molto piccoli, in realtà sono una goccia nell’oceano.
L’America è la principale destinazione di investimenti diretti (da non confondersi con gli investimenti finanziari cioè gli acquisti di titoli) da parte delle imprese di ogni altra nazione. Quelle italiane non sono mai state in prima fila né lo saranno, per tanti motivi tra cui domina la dimensione medio-piccola del nostro tessuto industriale. Niente a che fare con i mega-investitori storici che sono i colossi giapponesi o anche tedeschi.
Gli investimenti accumulati da questi paesi hanno raggiunto le migliaia di miliardi. L’Italia fa quel che può, i suoi investitori in America sono storicamente imprese con una partecipazione pubblica come Eni ed Enel (l’America essendo la prima superpotenza energetica del pianeta, è vitale la presenza su quel mercato, peraltro Eni ed Enel operano soprattutto nelle rinnovabili e nel nucleare), le grandi opere con WeBuild (ex Salini Impregilo), il settore della sicurezza con Leonardo, oppure il classico made in Italy agroalimentare con gruppi come Ferrero, Barilla.
Ma se si fa il confronto con la Toyota, siamo piccoli. E cito la Toyota non a caso: la prima grande ondata di investimenti giapponesi in America fu decisa come risposta ad un’altra stagione di protezionismo americano, quella voluta dal presidente repubblicano Ronald Reagan.
Per avere qualche idea sugli ordini di grandezza, attingo alle tabelle del Bureau of Economic Analysis, l’ufficio studi del ministero Usa del commercio estero. I dati ufficiali più aggiornati coprono l’intero 2023 e quindi si riferiscono ad un’annata in cui alla Casa Bianca c’era il democratico Joe Biden, molto prima degli annunci trumpiani sui superdazi. Ebbene nel solo anno 2023 i nuovi investimenti esteri diretti da parte di imprese estere negli Usa raggiunsero i 227 miliardi di dollari. A fare la parte del leone furono il Canada con 96 miliardi di investimenti aggiuntivi in un solo anno, seguita dalla Germania con quasi 60 miliardi di capitali freschi.
Queste iniezioni di nuovi investimenti andarono ad aggiungersi ad un totale accumulato pari a 5.400 miliardi di investimenti delle imprese straniere sul territorio Usa. Se si guarda alla provenienza di questa montagna di capitali investiti nel tempo, il primo paese in assoluto è l’Olanda con 717 miliardi di dollari: ma sappiamo che l’Olanda è un paradiso normativo e in parte fiscale dove hanno stabilito la sede societaria molte aziende di altri paesi UE, sicché in quel totale figura anche qualche società italiana (e non poche tedesche).
Al secondo posto c’è invece un paese che non ospita aziende altrui, il Giappone: le multinazionali nipponiche hanno investito 688 miliardi di dollari complessivamente negli Stati Uniti, e se si aggiungono gli investimenti fatti tramite aziende giapponesi con sedi estere si arriva al totale di 783 miliardi. Questo dato del 2023 è stato sicuramente superato nel 2024 e ancor più lo sarà nel 2025: perché la prima reazione alle minacce di Trump sui dazi da parte della grande industria nipponica è stata proprio quella di annunciare nuovi investimenti nelle proprie sedi produttive situate in America.
Sulle ragioni per cui le aziende italiane hanno un interesse strategico a investire negli Stati Uniti, ho scritto in una Guida pubblicata a cura dell’Ambasciata d’Italia a Washington e del nostro Consolato Generale a Los Angeles. Qui trovate il link con quella pubblicazione, e subito dopo un estratto della mia prefazione.
https://conslosangeles.esteri.it/it/italia-e-usa/diplomazia-economica/fare-affari-in-usa/guida-paese-smart/
In un’epoca segnata da tensioni commerciali, barriere e protezionismi, andare a investire all’estero è spesso l’alternativa strategica più sicura e intelligente rispetto al mestiere tradizionale dell’esportatore. Il 47esimo presidente degli Stati Uniti ne ha fatto uno slogan, invitando gli stranieri a costruire fabbriche qui. In realtà non è un tema nuovo, tutt’altro. Ronald Reagan ottenne un risultato simile negli anni Ottanta, quando le case automobilistiche giapponesi accettarono delle restrizioni all’export, e costruirono fabbriche sul territorio Usa. La Cina ha sempre usato ogni forma di barriere e costrizioni, per obbligare le multinazionali straniere a produrre sul suo territorio e trasferire know how a soci locali.
Anche l’Europa deve ascoltare il detto evangelico «Scagli la prima pietra…» perché la sua prima Comunità nacque negli anni Cinquanta come una fortezza circondata da alte muraglie, e in alcuni settori l’Unione ha continuato ad essere ben più protezionista di quanto creda la sua opinione pubblica.
«Produrre in America per il mercato americano» è quindi anzitutto una strategia lungimirante per tutelarsi dal protezionismo. Ma vedere solo questo aspetto sarebbe molto riduttivo. L’azienda che investe negli Stati Uniti lo fa anche per molte altre ragioni. Quello statunitense è il più grande mercato del pianeta, conquistarvi un accesso non è semplice per chi opera rimanendo nel proprio paese. Avere una presenza sul territorio Usa dà una marcia in più per padroneggiare questa realtà.
Infine gli Stati Uniti in diversi settori e mestieri sono un’economia all’avanguardia nell’innovazione: avere dei «sensori» ubicati qui consente di attingere a un laboratorio di esperimenti, per essere più competitivi, anche riportando a casa propria molti insegnamenti. (…)
Il ritardo culturale dell’Italia mi sembra grave oggi quando sento usare nei confronti del mondo di Big Tech delle categorie ideologiche, dottrinarie, dogmatiche. «È il regno degli Oligarchi!» Al suo centro, Elon Musk è il Grande Satana che sovverte la democrazia, non solo americana ma globale.
Il mio viaggio nella memoria, il salto indietro nella Silicon Valley dove mettevo radici 25 anni fa, è un esercizio utile per avere la giusta prospettiva storica. Pensateci bene: in quella primavera del 2000 non esisteva la Tesla, non parliamo di SpaceX o StarLink; Musk era un 28enne sconosciuto. Neppure Facebook-Meta era nato. In quanto a Google, era un virgulto, una start-up marginale. Amazon? Un piccolo sito per la vendita di libri online e nient’altro; cominciava a conquistarsi un pubblico di affezionati sulla West Coast, ma perdeva soldi e non era molto conosciuta nel resto degli Usa.
ChatGPT-OpenAI e altri protagonisti dell’intelligenza artificiale esistevano nei sogni di alcuni scienziati. Apple era un’azienda minore, inguaiata, che aveva dovuto emarginare il suo fondatore Steve Jobs per tentare di risanarsi. Altro che iPhone, Apple non aveva ancora inventato neppure l’iPod Nano, il mondo della musica portatile era dominato dalla giapponese Sony col suo Walkman. Preistoria.
Insomma quegli Oligarchi ritratti nella celebre foto di gruppo attorno a Donald Trump il 20 gennaio 2025, durante la cerimonia del giuramento nell’Inauguration Day, non avevano alcun ruolo nella prima rivoluzione digitale del 2000. Alcuni di loro erano ancora all’università, nel 2000. Altri erano i nomi, altre le aziende, altri i «poteri forti». Per lo più scomparsi, travolti o ridimensionati dalla competizione: nomi dimenticati come America On Line (Aol), Yahoo, Hewlett Packard.(…)
La Silicon Valley è la realizzazione più compiuta di quella «distruzione creatrice» teorizzata dall’economista Joseph Schumpeter. È il massimo della società aperta. Due dei presunti Oligarchi ai vertici di BigTech nell’anno 2025 sono nati in India (i CEO di Microsoft e Alphabet-Google). Il capo di Nvidia che domina i microchip per l’intelligenza artificiale proviene da Taiwan.
Un luogo dove degli immigrati possono fare questo tipo di carriera, non è esattamente una società oligarchica. Il sudafricano Musk, outsider allo stato puro, si è dovuto fare strada nella patria di Ford e General Motors e ha umiliato questi colossi nella corsa all’auto elettrica; poi ha fatto lo stesso con la Boeing nell’avventura spaziale.
Per un’azienda italiana investire in America significa collegarsi in presa diretta con la storia di un ecosistema tecno-socio-culturale, che il mondo intero ha tentato di replicare senza mai riuscirci. È tanto più importante in una fase in cui l’Intelligenza Artificiale rischia di suscitare le stesse reazioni di paura e resistenza conservatrice, che scattarono negli anni Ottanta e Novanta all’epoca della prima rivoluzione informatica.
Anche allora il riflesso istintivo nell’ambiente imprenditoriale italiano (per non parlare delle cosiddette élite culturali e dell’opinione pubblica) fu segnato da pigrizia intellettuale, diffidenza, allarme, atteggiamenti difensivi. In seguito è stato documentato – da ultimo nel Rapporto Draghi – come proprio allora iniziò a scavarsi il divario di crescita economica fra gli Stati Uniti e l’Europa; una spiegazione sta nel ritardo con cui il sistema delle imprese si appropriò dell’informatica nel Vecchio continente.
L’eco-sistema innovativo, il brodo di coltura dell’imprenditorialità, la fabbrica di scoperte e applicazioni tecnologiche che abbraccia le grandi università, spiega la fuga dei cervelli dal resto del mondo. In America più che altrove si allenano scienziati e ricercatori a diventare imprenditori di se stessi, a trasformare le idee in business; poi a reperire finanziamenti su scala superiore (grazie alla tradizione del venture capital, e non solo).
L’Italia ha degli handicap aggiuntivi rispetto ad altri paesi europei, dovuti alla piccola dimensione del suo tessuto produttivo. Investire in America è molto più difficile per aziende piccole e medie. Chi riesce a fare questo sforzo ne ricava dei vantaggi di ogni genere, anche sul piano culturale: cito ad esempio il fatto di misurarsi con un ambiente dove «essere piccoli» non è mai stato un valore in sé, dove ogni start-up nasce minuscola ma con l’ambizione di diventare la prossima Microsoft, Amazon, Apple, Nvidia.
Un’altra suggestione preziosa per gli italiani in questa fase di profondi cambiamenti geopolitici: la California è un esempio fin dal 1941, su come uno sforzo di ammodernamento e potenziamento dell’industria della difesa può seminare benefici in molti altri settori e diventare un volano di progresso economico. Quando l’America entrò nella seconda guerra mondiale, dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, l’Amministrazione Roosevelt potenziò l’apparato della produzione militare sulla West Coast. Fu allora che vennero seminati i primi germi dell’elettronica in quella che ne sarebbe poi divenuta la capitale mondiale.
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