I patti sono chiari: lo Stato non può più salassarsi per rimettere in piedi le aziende distrutte da cause naturali, che poi tanto naturali non sono perché alluvioni, inondazioni, esondazioni, terremoti e frane sono spesso frutto di attività umane che non tengono conto dei delicati equilibri su cui si regge il pianeta. Ecco allora che arriva, anzi arriverà perché lo attendiamo per l’inizio del 2026, l’obbligo di stipulare una “polizza catastrofale”.
Per le aziende, considerato che è un esborso in più in una fiscalità che strozza tutti tranne i numerosi evasori, il nuovo obbligo è una disgrazia per i propri conti. Lo testimonia la Cgia di Mestre, cioè l’Associazione artigiani e piccole imprese, in una delle sue utilissime ricerche e che ha qualcosa da obiettare: «Perché pagare una polizza contro le catastrofi, visto che lo Stato già ci obbliga, anche con le sue articolazioni periferiche, a versare 21 miliardi di euro all’anno di imposte ambientali?». Insomma, dopo la tassa arriva la tartassa.
Certo, non c’è alcun vincolo per queste risorse su cui può contare lo Stato. Esiste però più di una speranza che quel denaro sarà usato per pulire l’alveo dei fiumi, curare la manutenzione di argini e rive, realizzare bacini di laminazione o casse di espansione. Insomma, quelle buone pratiche che passano sotto la definizione “opere di mitigazione” e che servono per evitare gli eventi calamitosi, o quantomeno a ridurne la portata e quindi i danni che causano.
Messe da parte le incertezze contenute nella Gazzetta ufficiale di febbraio, tra poco le imprese saranno costrette a pagare per due volte la protezione ambientale: con le imposte versate allo Stato e agli enti locali, e poi il poco gradito bis con la sottoscrizione di una polizza obbligatoria con le compagnie assicurative private.
Questa storia della polizza è figlia di una delle tante inefficienze dello Stato, su questo non c’è dubbio. I rimborsi governativi per i danni dovuti alle calamità naturali hanno tempi biblici, ma le imprese sono ferme nella propria attività fin dal giorno in cui la calamità è accaduta. Risultato: quando i rimborsi statali arrivano, molte aziende sono già andate gambe all’aria, non esistono più. Ecco perché chi non paga quando deve, cioè lo Stato, ha avuto la pensata delle polizze assicurative, che invece rimborsano i danni previsti in contratto nel tempo di poche settimane e rimettono così subito le aziende nelle condizioni di potersi riprendere. Il che sarebbe lo scopo dei rimborsi pubblici, ma siamo una Repubblica addormentata e i tempi sono lenti. E la lentezza uccide le imprese.
Certo, che lo Stato si stia progressivamente ritirando dal settore sociale (incluse previdenza, sicurezza e sanità) è sotto gli occhi di tutti, ma non ci si aspettava anche il ripiegamento dalla protezione ambientale e questa scelta della polizza obbligatoria, pur legittima, è giudicata assai «discutibile» da molti, compresa la Cgia di Mestre: anche perché si lascia sempre più spazio ai privati (le compagnie assicurative) in questioni che sono invece pubbliche. Ma il punto su cui la Cgia di Mestre continua a battere, è che se i privati conquistano mercato anche nel settore delle calamità naturali, allora le tasse che si pagano per la stessa motivazione dovrebbero essere ridotte. Ma ci si conta poco.
Vediamo qualche numero: per quanto riguarda i 21 miliardi di imposte ambientali versati dalle imprese nel 2022, secondo le rilevazioni della stessa Cgia, i settori più tartassati sono quelli che consumano più energia, intesa come elettricità, gas, vapore eccetera. A loro competerà pagare 5,3 miliardi di euro. A carico delle imprese manifatturiere è poco meno, cioè cinque miliardi, mentre i trasporti sono colpiti con tre miliardi. In tre, questi settori si accollano il 63,7 per cento di questo nuovo balzello.
Tasse e tartasse, si diceva in precedenza. La Cgia indica i dati: famiglie e imprese, nel 2023, ne hanno pagate per 54,2 miliardi di euro. Tra i 27 Paesi dell’Unione europea, a pagare di più (71,4 miliardi) è solo la Germania. Se invece si guarda l’incidenza delle imposte ambientali sul Prodotto interno lordo (il Pil), dal secondo scendiamo all’ottavo posto con il 2,6 per cento, fermo restando che la Francia è all’1,8, la Germania all’1,7 e la Spagna all’1,6. La media dell’Ue è invece del 2 per cento tondo.
E ti pareva.
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