Prima di illustrare il funzionamento di fenomeni di pianificazione fiscale aggressiva, posti in essere mediante “triangolazioni artificiose” attuate nei flussi transnazionali di dividendi infragruppo, corre l’obbligo di evidenziare che, con il D.Lgs. 147/2015, noto come Decreto per la crescita e l’internazionalizzazione delle imprese, il Legislatore ha introdotto, nel nostro ordinamento giuridico, precise disposizioni antielusive, in vigore dallo scorso 7 ottobre 2015.
- la tassazione integrale dei dividendi opera solo qualora il socio residente in Italia detenga una partecipazione diretta in una società residente o localizzata in Stati o territori a fiscalità privilegiata;
- in caso di partecipazione indiretta, il socio residente deve essere titolare di una partecipazione di controllo (ex articolo 2359, cod. civ.) detenuta nella sub – holding intermedia estera che ha percepito utili da società localizzate in Stati o territori a fiscalità privilegiata.
Infatti, per espressa disposizione normativa, “si considerano provenienti da imprese o enti residenti o localizzati in Stati o territori a regime privilegiato gli utili relativi al possesso di partecipazioni dirette in tali soggetti o di partecipazioni di controllo, ai sensi del comma 2 dell’articolo 167, in società residenti all’estero che conseguono utili dalla partecipazione in imprese o enti residenti o localizzati in Stati o territori a regime privilegiato e nei limiti di tali utili”.
A tal fine, importanti novità riguardano i criteri di individuazione dello Stato o territorio paradisiaco.
Infatti, l’articolo 5, comma 1, lettera g), D.Lgs. 142/2018, ha introdotto ulteriori disposizioni in tema di dividendi black list, in vigore dal 12 gennaio 2019 (con effetti che si applicano a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2018), nonché agli utili percepiti e alle plusvalenze realizzate a decorrere dal medesimo periodo di imposta.
Nello specifico, l’esclusione da tassazione nella misura del 95% (prevista dall’articolo 89, comma 2, Tuir), si applica agli utili provenienti dalle società e gli enti di ogni tipo, compresi i trust, solo se diversi da quelli residenti o localizzati in Stati o territori a regime fiscale privilegiato, individuati in base ai nuovi criteri previsti dall’articolo 47-bis, comma 1, Tuir.
Proprio sulla base di quest’ultima disposizione, i regimi fiscali di Stati o territori, diversi da quelli appartenenti all’Unione europea, ovvero da quelli aderenti allo Spazio economico europeo con i quali l’Italia abbia stipulato un accordo che assicuri un effettivo scambio di informazioni, si considerano privilegiati:
- nel caso in cui l’impresa o l’ente non residente o non localizzato in Italia sia sottoposto al controllo (ai sensi dell’articolo 167, comma 2, Tuir) da parte di un partecipante residente o localizzato in Italia, laddove si verifichi la condizione prevista dall’articolo 167, comma 4, lettera a), Tuir;
- in mancanza del requisito del controllo sopra illustrato, qualora il livello nominale di tassazione risulti inferiore al 50 per cento di quello applicabile in Italia.
A tal fine, per espressa disposizione normativa, si tiene conto anche di regimi speciali che non siano applicabili strutturalmente alla generalità dei soggetti svolgenti analoga attività dell’impresa o dell’ente partecipato, che risultino fruibili soltanto in funzione delle specifiche caratteristiche soggettive o temporali del beneficiario e che, pur non incidendo direttamente sull’aliquota, prevedano esenzioni o altre riduzioni della base imponibile idonee a ridurre il prelievo nominale al di sotto del predetto limite e sempreché, nel caso in cui il regime speciale riguardi solo particolari aspetti dell’attività economica complessivamente svolta dal soggetto estero, l’attività ricompresa nell’ambito di applicazione del regime speciale risulti prevalente, in termini di ricavi ordinari, rispetto alle altre attività svolte dal citato soggetto.
Giova evidenziare che dal 2024, per effetto delle modifiche introdotte nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 209/2023, ai sensi del novellato articolo 167, comma 4, lettera a), Tuir, la disciplina sui dividendi paradisiaci si applica se i soggetti controllati non residenti sono assoggettati a tassazione effettiva inferiore al 15 per cento.
A tal fine, la tassazione effettiva dei soggetti controllati non residenti è pari al rapporto tra la somma delle imposte correnti dovute e delle imposte anticipate e differite iscritte nel proprio bilancio d’esercizio e l’utile ante imposte dell’esercizio risultante dal predetto bilancio.
In merito, il bilancio d’esercizio dei soggetti controllati non residenti deve essere oggetto di revisione e certificazione da parte di operatori professionali a ciò autorizzati nello Stato estero di localizzazione dei soggetti controllati non residenti, i cui esiti sono utilizzati dal revisore del soggetto controllante ai fini del giudizio sul bilancio annuale o consolidato.
Tuttavia, qualora la tassazione effettiva risulti inferiore al 15 per cento, i soggetti controllanti italiani devono verificare che i soggetti controllati non residenti siano assoggettati ad una tassazione effettiva inferiore alla metà di quella a cui sarebbero stati soggetti qualora residenti in Italia, utilizzando le disposizioni previste dalla normativa CFC sino al 31.12.2023.
Si precisa che, per poter disapplicare la tassazione integrale degli utili di provenienza paradisiaca, occorre dimostrare, anche a seguito dell’esercizio dell’interpello previsto dall’articolo 11, comma 1, lettera b), L. 212/2000:
- la sussistenza della condizione prevista dall’articolo 47-bis, comma 2, lettera a), ossia che il soggetto non residente svolge un’attività economica effettiva, mediante l’impiego di personale, attrezzature, attivi e locali;
- il rispetto della condizione indicata nell’articolo 47-bis, comma 2, lettera b), Tuir, ovvero che dalle partecipazioni non consegua l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori a regime fiscale privilegiato.
Ciò posto, interessanti principi di diritto sul tema della tassazione integrale dei dividendi sono stati recentemente diramati dalla suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10305/2024, nella quale gli ermellini hanno dato prevalenza delle disposizioni interne finalizzate a contrastare fenomeni abusivi rispetto alle disposizioni previste dalla Convenzione internazionale contro le doppie imposizioni su redditi stipulata tra Italia e lo Stato di residenza della società asseritamente interposta, fornendo simmetricamente la nozione di “società schermo”.
Nello specifico, i giudici di Piazza Cavour affermano che la “società schermo” è una costruzione artificiosa finalizzata ad eludere la normativa degli Stati membri; la sua funzione, infatti, non è quella di raggiungere un risultato sostanzialmente economico ma, piuttosto, un vantaggio fiscale ottenuto tramite un raggiro della ratio della norma tributaria.
Tale fenomeno elusivo trova collocazione nell’ambito delle strategie di “pianificazione fiscale aggressiva”, adottate dagli obbligati d’imposta per abbattere l’imponibile, sfruttando le peculiarità esistenti tra i regimi fiscali.
La figura della “società schermo” è una forma di abuso del diritto, rilevante sia ai fini civilistici, come risultato dell’esercizio di un diritto oltre il limite “funzionale” implicitamente previsto dalla singola norma, sia a fini tributari, quale strumento asservito al raggiungimento di un mero beneficio fiscale indebito.
A tal fine, il campo di applicazione dell’abuso in presenza di una “società schermo” – anche alla luce della Raccomandazione 2012/772/UE, della evoluzione nella Direttiva 2016/1164/UE (c.d. «ATAD 1») e dell’interpretazione giurisprudenziale delle sentenze CGUE c.d. “danesi” – ha assunto un ulteriore e più esteso significato: non solo «costruzione di puro artifizio», ma anche «non genuina».
La costruzione di puro artificio, secondo quanto si ricava dalla sentenza della Corte di Giustizia UE, 12/09/2006 in causa C-196/04, Cadbury Schweppes, (conformemente nelle sentenze 12 dicembre 2002, causa C324/00, Lankhorst-Hohorst, punto 37; De Lasteyrie du Saillant, punto 50, nonché Marks & Spencer; e sentenza 07/09/2017, in causa C-6/16, Equiom e Enka), è quella finalizzata ad eludere la normativa dello Stato membro interessato, creando catene di società prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale, giustificando così una legislazione nazionale restrittiva della libertà di stabilimento.
In definitiva, conclude la Corte, tali disposizioni – di rilevanza euro-unitaria e, in particolare, il Commentario OCSE, di guida all’interpretazione della disciplina pattizia – sono nel senso di consentire al legislatore nazionale di prevedere una disciplina antielusiva volta a evitare, tra l’altro, che la disciplina pattizia possa essere strumentalizzata al fine di favorire finalità elusive.
La verifica dell’abuso del diritto va ovviamente condotta “caso per caso” come insegna la giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo la quale “per accertare se l’operazione che si intende effettuare abbia come obiettivi principali la frode o l’evasione fiscale le autorità nazionali competenti devono procedere, in ciascun caso, ad un esame globale della detta operazione” (CGUE, sentenza Leur-Bloem 17 luglio 1997, C-28/95, punto 48B).
In conclusione, sulla base dell’approccio ermeneutico sopra delineato, la Suprema Corte afferma che: “a fronte della rilevata e contestata natura elusiva dell’operazione, non poteva la CTR limitarsi a rilevare la presenza della normativa pattizia, ma avrebbe dovuto confrontare – per sottrarre la pronuncia al vizio di violazione delle norme interne preposte alle riportate finalità, così correttamente interpretando la normativa sia interna che pattizia ed euro-unitaria – gli elementi in suo possesso con la loro rilevanza o meno in base alla disciplina antielusiva nazionale che si assume violata (e che tale si assumeva in sede d’appello), per quanto precede applicabile nella cornice della disciplina euro-unitaria e interpretando la disciplina pattizia alla luce del Commentario”.
In proposito occorre effettuare un accertamento di alcuni elementi sintomatici che disvelino lo svolgimento di una «no genuine economic activity» che sono stati individuati, anche in dottrina, a titolo esemplificativo:
- nell’inesistenza di un complesso societario organizzato, professionale ed economicamente rilevante;
- nell’assenza di impegno in un’attività economica prevalente all’interno dello Stato;
- nell’esistenza di pattuizioni infragruppo che obblighino la retrocessione del provento conseguito alla capogruppo od altra entità controllata direttamente o indirettamente;
- nell’installazione di una società interposta conduit e “non beneficiaria effettiva” di un determinato provento;
- nello svolgimento della prevalente attività della controllata in uno Stato diverso da quello della fonte;
- nelle coincidenze temporali sospette tra le operazioni giuridiche poste in essere tra le consociate facenti parte di uno stesso gruppo;
- nella presenza di un esclusivo motivo fiscale che abbia indotto la società ad operare la delocalizzazione al fine di erodere l’imponibile fiscale.
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